Sunday, January 15, 2017

FRAGILITÀ E NAUFRAGIO DELL’IO NELL’EPOCA DELLO SMARRIMENTO DI SÉ




di TheMusicStalker

Ci sono menti illuminate che se nella nostra storia non fossero esistite, sarebbe andato distrutto per gli occidentali quell’unico pilastro che fin qui impedisce (per quanto ancora?) che tutto cada in un caos senza ritorno, un orribile nulla esistenziale. L’opera di queste personalità di riferimento non è un semplice “fatto”, qualcosa che “è stato” una volta per tutte; bensì un tema proposto all’immaginazione e alla riflessione continuamente sin dalla sua creazione, e non smette per fortuna di sollecitare nuove risposte e nuove domande. L’Arte non diventa (solo) “consolazione” ma simbolo di quel fermento tragico che, più o meno in nuce, si trova da sempre - e oggi ancora di più - negli uomini assennati: il sospetto che tutti gli ideali della nostra esistenza siano inguaribilmente mutilati, incompiuti, mentre la maggior parte di noi si illude di realizzarli solo effimeramente, magari nella frenesia d’un momento d’ebbrezza che finisce necessariamente nella disperazione, vale a dire nell’imbarco euforico su una nave imbandierata e senza timoniere che anziché concretizzare sogni, scoperte, libertà, gonfia le proprie vele lasciandosi portare nel non-so-dove dal vento inebriante della vanità, verso naufragio certo.

Dall’istante in cui il mio animo di bambino rimase colpito dalla Bellezza autentica, quella immune dalla vana e volgare rappresentazione degli “io” in cera di disperate e irraggiungibili identità, spesso in passato mi fermavo a riflettere su quella beata concezione definita dai greci che chiama il mondo kosmos (ordine), rivelando che quella stessa concezione si ripete appunto in un superiore ordine di cose, nel mondo degli ideali di cui sopra, come una mirabile sapienza reggitrice che sappia annodare e riunire in “armonia” ciò che è dello stesso “genere”; e lo tuteli dalla imperante odierna banalità eretta a status di massa, pretestuosa e arrogante, che esige con gesti scomposti (quindi fuori dal kosmos) di annoverarsi senza saperne nulla in quel flusso vitale dell’intuizione e della creazione artistica che è invece solo di pochi.
Perché per dirla in modo spicciolo, Arte non è buttare giù schizofrenicamente dei colori a caso su un foglio o una tela, giusto per fare un esempio. Quello rientra semmai nella malintesa categoria dell’“osceno”, etimologicamente il fuori-scena, cioè non (rap)presentabile sulla scena.
Spinta da quella miope e meschina inconsapevolezza dei poveri di spirito e di genio (il talento è altra cosa e spesso non porta lontano), questa pornografica tendenza del “banale come modello” ritiene il suddetto Ordine una semplice casualità, dunque s’illude di potervisi inserire arbitrariamente.
Per essere “Artisti” oggi basta citare e autocitarsi, proclamare e autoproclamarsi, autosponsorizzarsi, autoincensarsi, autocommiserarsi. Infelice sollievo per chi brancola in verità nel buio della mediocrità, incapace di distinguere il pieno dal vuoto, il Bello dal volgare, l’Arte dalla (dis)simulazione di un “io” privo di spiritualità e contenuti: in altre parole, il Bene dal Male.
Ci troviamo non a caso nel disfacimento etico, quindi estetico, irreversibile. E non sappiamo come uscirne.

A cosa attribuiamo questo inarrestabile declino di “io” smarriti, nell’Arte come nella vita? La vita stessa (che non si comprende, come l’Arte) cosa diventa se non improvvisazione, sopravvivenza senza meta, come somma di momenti che si urtano senza alcun senso? Una vita come il “momento”, che è somma di momenti così come una somma di momenti non è altro che il momento stesso. Una non-vita senza progettualità.
Momenti fatti di effimeri e seducenti “desideri” che però non godono del loro stesso appagamento perché immediatamente hanno bisogno di trovare un nuovo oggetto/momento che stimoli un rinnovato desiderio, e così all’infinito; confondendo fatalmente i frutti della propria ebbra immaginazione con la realtà, la propria effimera “verità” compulsiva con la poesia, lasciandosi trasportare nel vortice dell’inesauribile Nulla.
Esistenze ispirate al sogno (irrealizzabile innanzitutto per chi lo ostenta senza comprenderlo) di vivere “poeticamente”, di continuo ritrattato però dagli impulsi disordinati che guidano le esperienze e l’agire concreto, privi di una vera poetica (cioè scelta di vita, dichiarazione etica) da cui derivano esistenze basate sul mero calcolo estemporaneo, che virano le proprie scelte esistenziali all’ultimo istante perché corrotte e attratte dal piacere compiacente e auto indulgente dell’esibizione individuale, della prevaricazione, della assillante “vendita” e “sponsorizzazione” di sé a ogni livello, dell’opportunismo improvvisato, con la costante consapevolezza di voler esibirsi indossando maschere sempre diverse e multiformi di fronte alla platea esanime del proprio “io” irrequieto e incapace di amarsi, cioè di consolidare la propria dignità di esseri umani, prima che di potenziali Artisti.

Non si è Artisti solo compiacendosi di definirsi tali.
Non è che una malattia, in questo secolo di decadenza etica e spirituale della coscienza, al pari di qualsiasi altra bulimia da eccesso di comunicazione e false verità; da sesso, da web e social network, e dalla loro costante manipolazione delle masse.
Non è che morbo dell’incoerenza e dell’incapacità di trovare sé stessi e la propria collocazione nel mondo.

Il problema è epocale, esistenziale, drammaticamente sociale, per questo non appena la realtà perde ogni forza d’incitamento in quanto povera, spaventosa e dal futuro incerto, ci si trova disarmati e soli. Non resta così che anestetizzare la propria vita emotiva secondo meccanismi ossessivi-compulsivi esattamente come nei casi di alcoolismo, bulimia, dipendenza sessuale, innescando circoli viziosi che evitino accuratamente di entrare in riflesso con le proprie sofferenze e frustrazioni. Per non prenderne atto e dunque non mettersi in discussione.
Procrastinare, sentirsi “impegnati” per non affrontare il vero nodo interiore da sciogliere per decidere, in poche parole, di risolvere la vita.
Così come per la dipendenza sessuale, il vero piacere e l’appagamento programmatico dell’esistenza è assente, si tratta di una libido falsata, cioè priva della sua componente erotica/estetica; si basa invece su meccanismi di mera dipendenza e accettazione indiscriminata di ciò che è inteso come “oggetto” sessuale, pornografico (il porno si instaura con la morte di Eros), attraverso un falso rinnovato stupore quotidiano per la “novità”, che comporta una specie di trance inebetita in cui è clamorosamente perduta la padronanza di sé e delle proprie reali potenzialità di scelta e autodeterminazione. Con il tracollo dell’amor proprio e dell’autostima.

Come per il sesso, l’individuo che si compiace pubblicamente di essere eterna vittima dell’universo che lo circonda, è costantemente ingannato dai suoi stessi intrighi, secondo i quali si serve a ruota libera di chi si trova sulla propria strada, di solito casualmente e non secondo libero arbitrio o scelta, per poi gettarlo via.
E cos’è se non il tormento (spesso inconsapevole) della propria espiazione, a esercitare la più potente punizione per questo delirio di onnipotenza del suo vuoto esistenziale? Il castigo ha un carattere puramente estetico nella mancanza di riflesso allo specchio, nell’inconsistenza della propria bellezza interiore; ma perfino il risveglio della coscienza è un termine troppo etico, e lo si rifiuta decisamente in quanto troppo pesante da sopportare. Da qui, la rabbia e la conflittualità nei confronti dell’universo non possono che aggravarsi e degenerare.

La coscienza appare a tratti solo come una forma di conoscenza “superiore” che si esterna come “inquietudine” sì, ma nemmeno si auto accusa né è indulgente verso sé stessa, anzi paradossalmente mantiene desti e nessun riposo concede alla propria sterile irrequietezza. Affinché non ci si fermi a pensare al vuoto che si sta alimentando.
Si perpetua così il circolo vizioso del volgare oblio di sé attraverso la continua pianificazione seriale del proprio svilimento come esseri umani.

A questo proposito dice Zygmunt Bauman: “I social media, come tutto il web, sono solo un mezzo. Snaturati nell’uso che ne facciamo, essi costituiscono spesso una via di fuga dai problemi del nostro mondo offline, una dimensione in cui ci rifugiamo per non affrontare le difficoltà della vita reale […].
Insidia da cui discende tra l’altro una drammatica “fragilizzazione” dei rapporti umani […] I blog, i siti di informazione online sono ‘il ‘sostituto povero della celebrità’.”

Fragilizzazione dei rapporti umani è termine chiave. Dov’è una potenziale strada della “salvezza” per riprendere il controllo del libero arbitrio, manipolato, martoriato, frustrato, e aiutarlo a riemergere dall’abisso dell’illusione del non poter rinunciare a innumerevoli e infruttuose occasioni di “scambio” e “conoscenza”, casuali, effimere, restando infine col vuoto di una drammatica solitudine irrisolta?

L’epoca della comunicazione istantanea erode il tempo della vita privata, dalla quale siamo spesso assenti.
Il tempo non è più inteso come valore prezioso, infatti la migrazione della vita online, ad esempio, non si traduce in un effettivo potenziamento, che è meramente illusorio, anzi non si è nemmeno in grado di utilizzare quella presunta libertà che esso potrebbe rappresentare.

Cambiano irreversibilmente le relazioni umane, sentimentali, la vita stessa, e si diventa più fragili poiché esposti ai venti della vanità “alternativa”. Essa stessa ci convince di non poterne fare a meno, convincendoci così a rinunciare a ciò che potrebbe rivelarsi importante per il nostro reale. Perché ci presenta inevitabilmente continui aut aut, dei quali non comprendiamo il valore e preferiamo la fuga dalla realtà alla responsabilità di trovare una nostra collocazione nel mondo.

La mutata percezione del tempo, profondamente diversa dal passato, rende gli eventi della vita imprevisti e imprevedibili. Esistono solo eventi istantanei, improvvisati, da consumare nell’immediato, che capitano inattesi così come frenetiche diventano spesso le relazioni sentimentali.
Ebbri di quest’illusione, nel confondere il vuoto esibizionismo auto-referenziale con la ricerca di una realizzazione personale (amare o il ritenersi Artisti,“creatori” di qualcosa che nel web assume solitamente denominazioni evocative quanto prive di significato - a questo scopo mutuate di solito dall’inglese); nell’abusare continuo di citazioni distorte da una bieca decontestualizzazione e ridotte a facili aforismi adatti a ogni occasione purché se ne banalizzi e stupri il significato originario; nell’erigersi a paladini della mediocrità col compiacimento narcisistico dell’ammettere al pubblico ludibrio le proprie debolezze, i propri stati d’animo senza pudore né cautela per sé e per chi ne è parimenti coinvolto; e ancora nella ricerca di incessanti gratificazioni attraverso l’approvazione di masse informi di sconosciuti che indiscriminatamente esercitano il “potere” di nutrire un “io” disarmato, fragile, vacante, carente d’affetto e riconoscimenti reali, soprattutto di fronte allo specchio e al vuoto della propria insoddisfazione; infine, per fare ancora un esempio, nell’esternare come in una rivista di vile pettegolezzo la propria condizione “occupazionale” (non userei il termine “lavorativa”) e persino quella privata del privato, cioè quella sentimentale che necessariamente è incontrollabile, cangiante e effimera, squilibrata nelle modalità e priva di autocritica perché è solo importante immolarsi come eterne vittime di qualcosa o qualcuno, e allo stesso tempo affermare la propria – inesistente – capacità di fronteggiare le sconfitte e le disavventure attraverso frasi precostituite e senza significato… il tutto davanti a una platea virtuale a volte attonita a volte falsamente solidale - per noia o inettitudine o secondi fini - alla quale ci si illude di “interessare” e da cui si auspica di essere incoraggiati e ammirati nonostante la bassezza delle proprie esternazioni, nel cattivo gusto e nel misero infantile autocompiacimento tra un litigio, un tradimento, una ostentata delusione (falsa) per concatenazioni incessanti di innamoramenti folli quanto inconsistenti, trasbordanti di parole infuocate, salvo poi durare una media di 8-10 giorni; ecco, sono questi tutti elementi all’origine di quel ”maladattamento” e livellamento verso l’infimo delle condizioni create da internet e dall’era digitale, che rendono l’attenzione su di sé e verso gli altri fragile e incostante, alimentano l’ansia di non dover perdere nemmeno un giro di quel vortice di luci colorate ma avvilenti, annientano la progettualità degli interessi e la profondità dei rapporti tra gli individui rendendoci inadatti al calore umano ma anche a riconquistare il libero arbitrio delle nostre scelte e selezioni.

Nell’incapacità narcisistico-ossessiva di evitare di connettersi a questo interregno dell’abuso di sé con frequenza compulsiva, il “dialogo” disperato sul nulla continua incessante tra centinaia di miserabili figurine le quali, cariche di Ego e accecate da inopportuna auto-celebrazione, erodono irreversibilmente il tempo reale a propria disposizione col solo scopo, in ognuno di quei precisi momenti e solo in quelli, di non sentire fuori quel vuoto che le tormenta dentro.


PPP Ultimo inventario prima di liquidazione | di Ricci/Forte



con Giuseppe Sartori, Anna Gualdo, Liliana Laera, Émilie Flamant, Elodie Colin, Cécile Basset
movimenti Francesco Manetti scene Francesco Ghisu costumi Gianluca Falaschi ambiente sonoro Andrea Cera direzione tecnica Alfredo Sebastiano regia Stefano Ricci assistente regia Ramona Genna
una produzione Ricci/Forte | CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia 


L’affresco di Ricci e Forte è un non finito michelangiolesco che mostra il suo disgusto di fronte a un tempo come il nostro, turbato e letargico, immaturo e sempre pronto a uno repentino cambio di direzione sotto l’influenza di un viscido apparente benessere che cela soltanto lo smarrimento cosmico di individui confusi e disumanizzati. Uno smascheramento della società, che rinchiude i suoi figli dentro una trappola attraente ma vuota di valori. Qual è il senso reale dell’entrare in contatto con gli altri, nel social network, attraverso il like, il cuore? 
Alla luce accecante del presente, preferisco ritornare giù, nella buia caverna del passato. Una caverna in verità bianchissima e luminosa, dove riconoscere meglio i nostri fantasmi.
'Ultimo inventario' è una critica alla società del consumo, un invito a investire il tempo che ci rimane in modo più proficuo.
---
"La tragedia è che non ci sono più esseri umani. Ci sono strane macchine che sbattono violentemente le une contro le altre.
Resta coi piedi per terra, prima che sia troppo tardi."
---



Chacun porte sa croix, moi je porte une plume.





















L’orizzonte è una linea d’acqua, il mare è la madre. Ritorno al ventre. L’azzurro si vede anche di notte, l’azzurro grida, l’azzurro ci scioglie nel sapore del giorno perduto. Quando sarò nel regno dei cieli, ricordami al padre tuo. La gente non tollera i poeti, li mastica, li sputa via. L’alba tornerà ad accendere un nuovo giorno. Prive di mastice però, le cose non restano insieme, così il mio spirito, pieno di luce, si ritrova inutilmente sbriciolato. La notte mi scalda, per un momento sembro anche io parte del creato, non più divinità ma spiga matura pronta alla mietitura. Ora sono mie le mani che stringono il volante, mia è la bocca aperta resa brulla dalle lacrime, mia la solitudine, il rimpianto, mentre le risate adulte mi consumano come fiammiferi strusciati sui cavalli di Frisia del cuore.




Quante lucciole ho visto nella mia adolescenza. Le ho invidiate, una per una, perché si amavano. Noi, virtuosi, saremo sempre e soltanto maschi infecondi, in artificiale vagabondaggio.




Pronti per l’estrema unzione restiamo, con le caviglie inverse; fissando, ostinati, il sole. Agli uomini interessa altro che vivere. La grazia miracolosa di chi non vuole sapere. Vedo gente che si cava gli occhi, che si tronca le dita per non sentire il morso tra le nocche, vedo spuma di sangue uscire da buchi dove prima albergavano nodi. Senza suoni si campa meglio. 

Il pianeta è una luna di sperma, bianca come la mia colpa. Non riesco a non sorridere. Ammaro come un astronauta russo tra i desideri umani. Novello Astolfo, mi sento indicibilmente lontano da tutto il sentire. Io, cosciente di chi soltanto nella storia ha vita, potrò più con passione operare, se so che la nostra storia è finita? 




Braccia legate al letto. A negare del desiderio di sedani e prezzemolo, per cancellare il rancore di aver investito sul cavallo sbagliato. Distruggi ogni gabbia di quella gabbia che è il passato.

La speranza inganna, le sconfitte aiutano solo a renderti più cortese, domestico.

Continuo a leccarmi i baffi, da bravo ruminante. Osservo le zampe porta fortuna illuminate dallo schermo di un telefono cellulare.

Friday, January 06, 2017


Navigo nel disconoscimento di me stesso. Dove non sono mai stato, là ho sempre vinto. 

Noi non siamo solo il prodotto di ciò che vediamo e ascoltiamo ma neppure di ciò che facciamo; poiché non esiste qualità nella natura umana che causi più errori di quella che ci spinge a scegliere e agire più in base alla labile circostanza che alla nostra intima essenza.
Quante forme può ancora assumere questo ingannevole canto delle sirene che rompe il silenzio della conoscenza erigendo un muro contro i pensieri, contro ciò che è difficile spiegare in mezzo allo strepito della mediocre rappresentazione sociale, della volgarità e dei violenti contrasti dietro i quali si celebra quotidianamente il funerale della dignità umana?
La verità resta nascosta ai più, eppure risiede nella semplicità metafisica di una favola, il suo riconoscimento è nel racconto del timore cosmico che ciascuno ha, di fronte alla propria piccolezza, per tutto ciò che è sconfinato e incomprensibile. 
Accogliere quella paura significa elevare l’errore a necessità, proprio perché noi non siamo i nostri errori, ma attraverso essi ci trasformiamo per diventare degni della parte migliore di noi. 
Slacciate da voi la vita e collocatela di sbieco come un vestito che stringe troppo; perché l’ancestrale verità sull’esistenza è nell’eterno passato e nell’eterno futuro delle nostre debolezze, nell’entità del turbamento che riusciremo a riconoscere e ospitare nel nostro animo.